lunedì 26 settembre 2011

Ansia sociale: stare male in mezzo agli altri 


Sarà capitato a tutti, almeno una volta nella vita, di sentirsi in imbarazzo di fronte a persone, posti nuovi o nell’iniziare una nuova attività. Tutti conosciamo l’agitazione prima di parlare in pubblico, o prima di un esame. Molte persone, con l’esercizio, riescono a superare l’ansia, fino a renderla un’alleata;  altre invece vengono travolti da
un’intensa e persistente paura di affrontare le situazioni in cui si è esposti alla presenza e giudizio altrui. L’ansia è talmente forte e devastante da dover scappare, ricorrere a psicofarmaci ed evitare a qualunque costo lo stimolo ansiogeno ( il contatto con altri potenzialmente giudicanti), che diviene lo stimolo che scatena reazioni psicosomatiche anche invalidanti.

Ma qual è la linea di confine che separa l’ansia normale, che tutti proviamo, dall’ansia patologica, che blocca qualunque nostra iniziativa rendendoci praticamente inermi? E quali possono essere le strategie utili per superare la timidezza?

Possiamo iniziare col dire che la timidezza non una malattia, è un tratto del carattere; e per quanto può presentare più svantaggi che vantaggi, non è un disturbo tale da determinare l’evitamento cronico e generalizzato di tutte le situazioni sociali.

L’ansia sociale invece presenta caratteristiche pervasive di evitamento delle situazioni sociali, con conseguente compromissione della funzionalità di aree importanti come l’area lavorativa o scolastica. In questo caso, la paura di proporsi agli altri diventa insuperabile e il “timido patologico”, sviluppa pensieri  negativi come :  “solo io sono così bloccata”, “gli altri rideranno e parleranno male di me”, “guarda quella quanto è sicura … io invece …”, innescando un circolo vizioso che porta ad incrementare sempre di più l’ansia e il senso di inefficacia. Chi soffre di ansia sociale interpreterà situazioni normali - come due persone che parlano tra loro, o lo sguardo di un ragazzo per la strada- come situazioni percepite come pericolose o minacciose per sé.  Se due persone parlano tra loro, chi soffre di un’ansia patologica penserà “mi staranno criticando”, e un ragazzo che ci guarda per la strada, lo farà di sicuro perchè “ha capito che sono strana”, oppure “mi guarda perchè faccio schifo”. I pensieri negativi potenziano l’ansia, che a sua volta rinforza i pensieri negativi, in un ciclo infinito.
Che fare dunque?

Nei casi di ansia patologica che impedisce il contatto sociale, una possibile soluzione è affidarsi ad uno psicoterapeuta, che insegni delle strategie per gestire l’ansia, e ristrutturi i pensieri disfunzionali.
“Si può guarire o resterò per sempre cosi”? Questa è una delle domande più frequenti riportate in seduta e per rispondere a questa domanda ritengo significativa l’esperienza di utente di un forum (ringrazio per la collaborazione il dott. Delogu)(http://www.forumsalute.it/community/forum_49_psichiatria_e_dipendenze/thrd_160370_fobia_sociale_2.html#post3760973) , che racconta la sua esperienza così:


“Accolgo volentieri il suo suggerimento, descrivendo la mia esperienza, sperando che possa davvero essere d'aiuto a qualcuno. 
La mia sociopatia (se così si può definire, non conosco il termine tecnico esatto, in caso mi scuso anticipatamente) è cresciuta lentamente, sin dall'adolescenza. Ho avuto davvero coscienza del problema solo al suo culmine quando, già studente universitario, mi sono reso conto di non riuscire a stabilire rapporti interpersonali con nessuno, esclusa una ristrettissima cerchia di amici di vecchia data. All'università, ambiente che dovrebbe favorire la nascita di nuovi rapporti, e unico che frequentavo al di fuori di famiglia e amici già citati, non riuscivo a scambiare parola con nessuno. Ero vinto dall'insicurezza e dal senso di inadeguatezza. Se qualcuno mi rivolgeva la parola, l'ansia di sostenere il dialogo era molto forte, ma anche stare semplicemente nella stessa stanza con altre persone mi provocava disagio.
Un cambio di facoltà è stata forse la molla che mi ha dato lo slancio per affrontare la situazione. Ero cosciente del problema, e volevo provare a risolverlo. Nuovo ambiente, potevo ripartire da zero, con persone che non mi conoscevano. Prima dell'inizio delle lezioni, per diverse settimane, ho atteso con ansia e quasi con impazienza l'impatto col nuovo ambiente. E contemporaneamente ho cercato di impormi una sorta di autocontrollo, ma soprattutto mi sono ripetuto all'infinito che se non vincevo ora questo problema, non ci sarei riuscito più. Insomma ero come un tuffatore che ormai ha preso lo slancio sul trampolino: non potevo più fermarmi, ma non potevo sapere se sarebbe finita bene o sarebbe stato un disastro. Dipendeva solo da me. Ho deciso di scegliere la tattica del "distacco". Mi spiego: mi sono imposto di non pensare più "oddio sto parlando con qualcuno che non conosco" "e se dico una cavolata?" "e se mi si bloccano le parole in bocca?" "ora mi prenderanno per scemo" eccetera. Autocontrollo, concentrazione e allo stesso tempo neutralità e distacco. Mi son detto: se riesco a concentrarmi e restare tranquillo, posso riuscirci.
Dal primo giorno ho tentato di stabilire nuove conoscenze, senza aspettare che gli altri si presentassero, ma forzandomi a prendere l'iniziativa (che faticaccia i primi giorni!). Fortunatamente ho trovato persone cordiali e amichevoli, che mi ispiravano fiducia. Il tutto è stato però graduale. Ancora vittima dell'insicurezza nel rapporto con gli altri, ho contribuito (lei ci ha messo del suo) a far sfumare una possibile relazione sentimentale. Con gradualità mi sono abituato allo stare con le persone, a parlare con loro, ad essere al centro dell'attenzione ed anche a catalizzarla di proposito (quest'ultima conquista recente, una volta situazione assolutamente improponibile). Dopo un anno, un anno e mezzo, ho iniziato a ritenermi soddisfatto del risultato raggiunto. Anzi vedevo il me stesso di qualche mese prima quasi come un estraneo.
Ovviamente la cosa non è risolta al 100%. Non so se si tratta di un effetto "collaterale" del cambiamento, ma ho sviluppato una sorta di insensibilità abbastanza spiccata, accompagnata da una sorta di "chiusura" per molto di quello che vorrei/dovrei esprimere. Faccio fatica a tirare fuori sentimenti e pensieri personali in sostanza. Anche se ora non ho problemi a sostenere una relazione anche impegnativa (sono fidanzato da più di un anno)”.


 Strategie comportamentali, esposizione in vivo, ristrutturazione dei pensieri: tutte tecniche che il nostro utente ha più o meno usato inconsapevolmente,  con ottimi risultati. Ma al di là delle tecniche, più o meno sofisticate, più o meno strutturate, al di là della scelta di intraprendere una psicoterapia, ciò che va sottolineato nell’esperienza di sopra, è la tenacia, la caparbietà, la disciplina e la voglia di farcela, il desiderio fortissimo di superare le proprie difficoltà, a qualunque costo.
Questi sono gli ingredienti indispensabili quando vogliamo superare da soli una difficoltà, ma anche quando ci rivolgiamo ad uno psicoterapeuta.  Anche lo psicoterapeuta migliore del mondo non può nulla senza che un paziente voglia cambiare, e sia pronto per farlo anche a costo di fare grandi sacrifici.
Ed è qui il vero segreto che vi confido: la benzina per far camminare la macchina della psicoterapia, può metterla solo il paziente. Questa benzina si chiama motivazione.   

1 commento:

  1. Molto bello il tratto finale di questo post centrato sulla motivazione. Se mi chiedono di una psicoterapeuta nella provincia di Cagliari, segnalo te.

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